Le Scimmie Nude ed Il rovesciamento della danza FrancescaR Lino / plateaLmente – uno sguardo sulla scena milanese /
Cos’è, in fondo, la danza, se non l’armonizzazione di quelle movenze, che il nostro corpo spontaneamente emetterebbe in modo certo più scomposto, senza l’imposizione di una regola dall’esterno? E viene subito in mente Tersicore, la musa della danza: le sue movenze aggraziate, le dita affusolate e pizzicare la lira d’accompagnamento per l’altrui esibizione.
Ecco: se questa è l’immaginario che vi evoca, la parola ‘danza’, ancor più efficace risulterà lo spiazzamento di fronte a questa “Danza alla rovescia”, che la compagnia delle Scimmie Nude ha portato in scena al Teatro della Contraddizione dal 9 al 24 aprile. Se Tersicore, infatti, dice ‘apollineo’ – e quindi: ‘ordine’, ‘misura’, ‘proporzione’, ‘modulazione’ e ‘sublimazione’, in qualche modo: ‘bellezza’ ed ‘armonia’ in senso classico -, questa danza, rubata agli scritti di Antonin Artaud, sa più di ‘dionisiaco’, per restare in quel paradigma. Quindi dice ‘decostruzione’, ad esempio – sia del movimento che del sotteso pensiero e, dunque, del linguaggio -; dice ‘rivoluzione’ – come presa di coscienza della propria fisicità, di contro ad un quadri millenario modello che ha fortemente voluto la scissione fra anatomia e natura; dice ‘volontà tesa al gesto più semplice‘, quale prepotente negazione di qualsiasi indagine psicologica, nella convinzione che la verità del corpo sia qualcosa di più originario ed autentico delle sovrastrutture intellettualistico-affettive del singolo. Dice di un metodo, che predica un “distacco e disinteresse feroci” per poter diventare insensibili a idee, sentimenti e percezioni. “Sento la vita con un ritardo, che me la rende inattuale. Non del tutto all’interno, non del tutto all’esterno…”, uno degli smozzicati stralci di frase di Claudia Franceschetti, superba interprete di questa figura artaudiana, costretta da una tuta di contenimento e gettata in una stanza-non luogo con tutti i sacri crismi del tormento. La scenografia, infatti, è campeggiata dalla verticalità di un letto di ferro – che dice subito manicomio -, da uno sgabello con catino a fianco – di quelli che, in un’epoca certo ante Basaglia, avranno costituito il magro arredo di quelle camerate infernali – e da una selva di elastici – agganciati, a scendere, dal soffitto… – forse sintomo di quelle convenzioni, imposizioni, falsificazioni, in cui, di fatto, spesso resta intrappolato tutto: lei e gli oggetti che ne abitano l’immaginario. E tutto scolora: da ‘cose’ a ‘nomi’; proprio per questo, forse, si risolvono ulteriormente in ‘flatus vocis’ di una realtà esterna, che si confonde, svaporando la sua consistenza reale.
Ad certo punto, poi, il letto scende nell’apparente normalità della sua posizione orizzontale: ma è solo per parlarci della sua morte. “Sono morta?”, si chiede, a braccia incrociate sul petto ed illuminata dal livore di gelatine blu cobalto. Ma si capisce che è di una morte differente, che si sta parlando: “All’inizio non lo seppi, ma poi dovetti prenderne coscienza per potermi ritirare sù… Vengono ad imbalsamarmi e si stupiscono di trovarmi viva. Cos’è successo? Sono stata falsificata! Io non sono questo corpo misurato, sortilegio di pelle… ustione del pensiero che non comprendo…”. “Colpisca questo corpo!”, è il monito ad alcuni degli spettatori in sala nel momento di verità: a luci accese e frantumata la quarta parete… Perché quel che si tenterà, ora, sarà la via della negazione del corpo – “Il corpo è solo il corpo. Non ha bisogno di organi. Non è un organismo. E’ solo un corpo.” e, ancora: “Niente spirito… niente organi… niente paura… di avere paura… di dire una ferita profonda fra la lingua consumata ed il pensiero, che impedisce di parlare”. E c’è pure spazio per la filosofia – nominalismo logico, realismo, concettualismo… -, ma sono solo coincidenze, perché quel che si va ripetendo – meglio: ‘agendo’ – per i 45 minuti di durata dello spettacolo, è la necessità di ripartire dalla concretezza fisica del proprio corpo e dalla volontà di farlo fino alle sue estreme conseguenze. “Uccidere il pensiero per il corpo”, il leit-motiv, che la porta – di nuovo – ad aggirarsi fra il pubblico in sala: “Voi non credete nel corpo… ma io non ho spirito. Sono solo un corpo.”
E, finalmente, la rivelazione: “Bisogna restituire al corpo registro organico intero nel dinamismo e nell’armonia di una danza alla rovescia per non far dimenticare all’uomo che è dinamite in attività”. Quanto – inconsapevole – precipitato dello spirito del tempo, in queste parole: Nietzsche, Van Gogh, Rimbaud, Verlaine… Artaud – ovviamente – e di tutte quelle anime sole, che hanno avuto l’ardire – o la necessità – di combattere gli spettri della propria esistenza. Dunque un testo quanto mai programmatico della poetiche delle Scimmie Nude, questo di Gaddo Bagnoli, costruito a partire dalle improvvisazioni della stessa Franceschetti. Eppure dà vita ad uno spettacolo da vivere – di pancia, quasi – e da fruire – musicalmente, quasi -, più che da capire – intellettualmente -; uno spettacolo in actu: “E’ camminando che mi compongo come voglio e capisco cosa voglio… Bisogna scomporsi: rimuovere gli ostacoli ed i blocchi del corpo.”. E’ un inno alla volontà: “Lo stupro della volontà ha creato il male fisico, in cui l’uomo è maligno.” “Io sono stata malata per una vita… malata di società, proprietà, onore… Ora voglio liberarmi.”; e, dopo aver messo in guardia rispetto all’inutilità di voltar le spalle alle questioni, il commiato è, ancora una volta: “Resistere col proprio corpo conoscendolo”, in qualche modo chiudendo il cerchio di quell’iniziale: “Che cosa provoca la nostra sottomissione a questa coercizione, in cui viviamo? “Per fare la rivoluzione si dovrà prima prendere coscienza del proprio corpo, perché non tutti coloro che hanno un corpo sono in grado di essere quel corpo.”