Un essere umano è scosso da vibrazioni (elettroshock? spasmi vitali? emozioni? morti? rinascite?) fortissime, su di un letto madido di sudore, sotto una gelida luce bianca che va e viene. L’ambientazione, di primo acchito, ricorda la cella di un manicomio; ma anche la cella di una prigione, per il suo essere spartana e vuota, e la presenza del secchio, come nell’immaginario tipico dei condannati. Allo stesso tempo, la scena non è propriamente una prigione né propriamente una cella ospedaliera: è un non-luogo, è un fuori e un dentro, è un tutto e un niente.
Molto dello spettacolo si basa su delle contraddizioni, opposizioni, spinte contrarie. Dai movimenti frenetici e scombussolati di Claudia Franceschetti alle sue parole ritorte. Andando con ordine: le capacità teatrali dell’attrice sono esplorate e sfruttate fino al limite dello stremo. In pressoché costante moto, tira su le braccia, giù le gambe, batte i piedi, le mani, scalcia, si muove ritmica ed aritmica, in modo convulso e turbolento, mima l’essere un burattino (delle sue stesse mani!), balla e marcia come un soldatino, sempre in modo perfettamente calcolato, posato, col pieno controllo del suo corpo d’artista. Idem dicasi per la sua voce: bassa, bassissima, urlata, altissima, in alcuni momenti sovrannaturale, asessuata, ibrida, spaventosa e profondamente dolce (laddove pone una domanda al pubblico, ad esempio), uno strumento sapientemente dosato per tutta la durata dello spettacolo.
Antonin Artaud è l’ispiratore di questa ispirata Danza alla Rovescia: è questo è chiaro ed evidente, nelle somiglianze con la sua vita vissuta (rinchiuso in un manicomio), nel testo dello spettacolo e anche negli intenti stessi della Compagnia Scimmie nude. Artaud parlava di teatro della crudeltà: un teatro che scardinasse la forma e la parola. Ripetizioni, frasi spezzate, onomatopee, in questo teatro la parola è azione, ha un corpo e interagisce con il pubblico e la realtà. La forma è mutevole, fisica, ricca di movimenti e ondeggiamenti, salti e voli. Dunque: la parola si fa fisica come il corpo e il corpo si fa etereo come la parola, si invertono e si fondono questi due linguaggi a crearne uno nuovo. Danza alla rovescia è un’effettiva danza (culminante, forse, nel sublime momento di danza tribale della Franceschetti davanti al secchio che si avvita su stesso) dell’animo che è puro corpo, che è soltanto corpo, come più volte ripete il testo – «tra corpo e corpo non c’è niente».
È possibile che, assistendo a Danza alla rovescia, vi sentiate gonfi di un sentimento che potrei chiamare “straniamento”; altrettanto possibile, d’altro canto, che sentiate invece una profonda sensazione di familiarità, di comprensione. Burroughsianamente, essere un corpo, non essere niente altro, restare un corpo.
Che siate segregati in una camera, con addosso una camicia di forza o semplicemente rinchiusi nella galera del proprio linguaggio, nelle pratiche e nelle abitudini delle attività della propria routine – dov’è la differenza? Forse che la lingua non è già una gabbia, un virus, un sistema che determina dall’esterno i modi di agire e di pensare, soggiogando inconsapevolmente il soggetto (il corpo)? Reagire a quest’imposizione cui è impossibile sfuggire è una danza del corpo e dellla parola. Essere umani ed essere inumani, vivere e, allo stesso tempo, non essere ancora nati. Risorgere, strepitando, ballando, teatrando.